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1 Dicembre 2021Una questione, da anni, assai dibattuta in seno alla dottrina ed alla Giurisprudenza è quella relativa alla risarcibilità del danno da c.d. “lucida agonia”.
Tale tipologia di danno è ascrivibile alla più ampia categoria del danno morale e intende riferirsi a quel pregiudizio scaturente dalla lucida consapevolezza dell’inesorabile appropinquarsi della propria morte.
In altri termini, tale tipo di danno si avrà allorquando un soggetto, prossimo alla morte, avverta, in pieno stato di coscienza, l’attesa della sua fine, sicura ed imminente.
Orbene, dopo accesi dibattiti in merito alla possibilità di riconoscere un risarcimento in capo ai congiunti della vittima di tale tipologia di danno, la Giurisprudenza di legittimità è approdata alla conclusione secondo cui tale tipologia di lesione morale sia passibile di risarcimento e ciò indipendentemente dall’intervallo di tempo decorso tra le lesioni, presupposto della morte, ed il decesso.
Con riferimento alla dimostrazione dell’esistenza e, conseguentemente, del diritto al risarcimento per tale danno, i congiunti della vittima dovranno fornire la prova circa l’esistenza della coerente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine nello spatium temporis tra la lesione e la morte, indipendentemente dalla durata della lucida consapevolezza, la quale non rileverà ai fini dell’an risarcitorio e potrà rilevare, al più, per la determinazione del quantum.
Da ultimo, sul punto, è intervenuta la Suprema Corte, con l’Ordinanza n. 11719/2021, chiarendo che “…in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale deve essere tenuto distinto da quello biologico terminale, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso,rilevando soltanto l’integrità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.”.
Ne consegue che, a detta della Giurisprudenza di legittimità, tale voce di danno sarà sempre risarcibile in capo ai congiunti della vittima, indipendentemente dalla valutazione del lasso di tempo decorso tra la lesione e la morte.