
“Super Green Pass” nei luoghi di lavoro al vaglio del TAR
18 Febbraio 2022
Emissione di fatture inesistenti e detrazione dell’IVA
3 Marzo 2022Il Consiglio di Stato, con una recente pronuncia (Sentenza n. 952/2022) è intervenuto in tema di configurabilità dell’ipotesi di “mobbing” nell’ambito del pubblico impiego.
La fattispecie di c.d. “mobbing” si configura alla presenza di una sistematica persecuzione esercitata sul posto di lavoro da colleghi o superiori nei confronti di un individuo, consistente per lo più in piccoli atti quotidiani di emarginazione sociale, violenza psicologica o sabotaggio professionale, ma che può spingersi fino all’aggressione fisica.
Nello specifico, nella fattispecie in esame, i Giudici amministrativi si sono interrogati circa la possibilità di configurazione di tale condotta delittuosa nell’ambito del rapporto di pubblico impiego.
La vicenda prende le mosse dall’impugnazione promossa da un soggetto arruolato presso il Corpo di Polizia penitenziaria, il quale aveva promosso ricorso presso il TAR calabrese volto al riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti agli episodi vessatori qualificabili come mobbing posti in essere nei suoi confronti dalla Direzione della Casa Circondariale di Reggio Calabria.
Il ricorrente, invero, fondava le ragioni del proprio ricorso riferendo che, dopo un brillante percorso di carriera avuto sino al 2004, sino al collocamento a riposo, è stato sottoposto, continuamente e sistematicamente, a una serie di azioni disciplinari; inoltre, dopo aver subito un intervento di angioplastica con inserzione di stent nell’arteria coronarica, nonostante le reiterate istanze di segno inverso presentate alla Direzione della Casa Circondariale, veniva continuativamente costretto a svolgere ore di lavoro straordinario e missioni fuori sede; ancora, nonostante le problematiche di salute e le incessanti richieste di essere destinato a servizi compatibili, veniva assegnato ad un servizio di sentinella e a nulla sarebbero valse le rimostranze rivolte al Comandante di Reparto che, pur messo a conoscenza della pericolosità dell’attività, lo costringeva a eseguire l’ordine di servizio. Il deducente aveva riferito, inoltre, di aver perso i sensi dopo due ore di attività e di essere stato ricoverato presso l’ospedale di Reggio Calabria.
Ritenendo di aver subito condotte illegittime, mobbizzanti e psicologicamente persecutorie, proponeva ricorso dinanzi al T.A.R. Calabria, chiedendo il risarcimento dei danni patiti, sussistendo tutti i presupposti della responsabilità, e, in particolare, l’accertamento dell’illiceità della condotta mobbizzante tenuta dall’Amministrazione con conseguente condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.
Il TAR calabro, tuttavia, negava il riconoscimento di tale risarcimento, ritenendo “del tutto inconsistente […] la prospettazione di una condotta qualificabile come mobbing ai danni del ricorrente da parte dell’Amministrazione resistente” e che “le scelte amministrative censurate dall’odierno istante non lasciano trasparire alcun intento evidentemente persecutorio, dato che i poteri esercitati non dimostrano quei caratteri di esorbitanza e pretestuosità che, come innanzi detto, sono necessari per integrare la fattispecie di illecito da mobbing”.
Il Tribunale Amministrativo, in particolare, prendeva in esame gli specifici episodi allegati dal ricorrente, escludendo l’esistenza dei presupposti per la configurazione del mobbing, tra cui in primis l’intento persecutorio, ritenendo, altresì non raggiunta la prova del danno asseritamente sofferto dal ricorrente e del nesso di causalità tra l’azione dell’Amministrazione e il danno.
Orbene, giunta la questione al Consiglio di Stato, l’organo giudicante ha avuto l’occasione di precisare quali siano le caratteristiche richieste al fine di configurare l’ipotesi di mobbing nell’ambito dell’impiego pubblico.
Il Consiglio di Stato, nella richiamata sentenza, ha precisato come “…la configurabilità del mobbing presuppone l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima. Grava sul soggetto che afferma di essere stato vittima di mobbing l’onere di provare la condotta illecita, ossia l’azione volutamente persecutoria da parte dell’Amministrazione…”.
Il Consiglio di Stato ha, inoltre, indicato quali siano gli elementi da considerare al fine di identificare un’ipotesi di mobbing in ambito di impiego pubblico chiarendo che debbano ricorrere una pluralità di elementi costitutivi:
“a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi…”.
Ne consegue che, nell’ambito dei rapporti di pubblico impiego e della conseguente responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. , “…il mobbing si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica…”. (ex multis Cons. St., sez. VI, 13 marzo 2018, n. 1589; 28 gennaio 2016, n. 284; 12 marzo 2015, n. 1282).
Nella fattispecie in esame, pertanto, il Giudice di seconde cure ha rigettato l’impugnazione proposta, non ritenendo sussistenti quelle caratteristiche necessarie al fine della configurazione dell’ipotesi di mobbing in ambito di impiego pubblico.