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16 Settembre 2022Il panorama giurisprudenziale sviluppatosi negli ultimi anni ha delineato, con sempre maggiore precisione ed attraverso il supporto della scienza medica, alternative per descrivere varie situazioni di conflittualità lavorativa che possono ledere la personalità morale e sociale dei lavoratori.
A tal proposito, in molteplici contesti clinici, giuridici e organizzativi è sempre crescente l’interesse in merito al benessere lavorativo e ci si interroga e confronta sull’importanza di trovare, su questo tema, degli specifici canali di intervento per promuovere la salute all’interno dei luoghi di lavoro e per prevenire l’insorgenza di fenomeni disfunzionali.
In armonia con tale assunto il Legislatore nella normativa speciale dettata in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ex D.Lgs 81/2008 ha ampliato la portata di due norme fondamentali, ossia il concetto di SALUTE, intesa come lo: “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale non consistente solo in un’assenza di malattia o di infermità”e, annoverando all’interno DELL’OGGETTO DELLA VALUTAZIONE DEI RISCHI, ex art. 28 : “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro”..
Eppure, non si può tacere, come in molti contesti lavorativi esistano situazioni in cui i lavoratori maturino un senso di disagio che si ripercuote sulla propria salute psico-fisica.
Lo stress lavoro-correlato è stato ampiamente tratteggiato dall’Accordo europeo sullo stress sul lavoro siglato a Bruxelles l’8 ottobre 2004, secondo cui “lo stress è uno stato che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti. L’individuo è capace di reagire alle pressioni a cui è sottoposto nel breve termine, e queste possono essere considerate positive, ma di fronte ad una esposizione prolungata a forti pressioni egli avverte grosse difficoltà di reazione.
Lo stress non è una malattia, ma una esposizione prolungata allo stress può ridurre l’efficienza sul lavoro e causare problemi di salute.
Lo stress indotto da fattori esterni all’ambiente di lavoro può condurre a cambiamenti nel comportamento e ridurre l’efficienza sul lavoro.
Il panorama giurisprudenziale sviluppatosi negli ultimi anni ha delineato, con sempre maggiore precisione ed attraverso il supporto della scienza medica, alternative per descrivere varie situazioni di conflittualità lavorativa che, pur non rientrando nell’alveo dello stress e/ o del “mobbing” meritano ugualmente di essere tutelate.
In particolare, attraverso l’apporto conferito dalla scienza medica la giurisprudenza svilupattasi negli ultimi anni, ha indicato con il termine “straining “, la situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing) ma tale da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa, il suddetto “stress forzato” può essere provocato appositamente ai danni della vittima con condotte caratterizzate da intenzionalità o discriminazione” o anche da una sola condotta ostile “purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori” (cfr. Tribunale Roma; Sez. Lav.; n. 4507 del 17 maggio 2022; Corte di Cassazione n. 3291 del 16 febbraio 2016)
Il termine straining coniato dal connubio di due termini inglesi: dal verbo inglese to strain, che è molto vicino a quello di un altro verbo inglese, to stress individua con chiarezza il legame tra straining e stress occupazionale che è evidente, poiché in una situazione di straining, l’aggressore – o strainer – tenderà, sempre, a far cadere la propria vittima in una condizione particolare di stress.
Si tratta, in questo caso, di un tipo di stress, che la dottrina maggioritaria definisce superiore rispetto a quello connaturato alla natura stessa del lavoro e alle normali interazioni organizzative. Esso, infatti, è diretto nei confronti di una vittima o di un gruppo di vittime in maniera intenzionale e con lo scopo preciso di provocare un peggioramento permanente della condizione lavorativa delle persone coinvolte.
È innegabile che, una persona demansionata e umiliata per un lungo periodo di tempo soffre a livello di autostima, di socialità e di qualità della vita, riportando un danno esistenziale, oltre che professionale ed eventualmente biologico.
La celebre sentenza della Corte di Cassazione n. 3291 del 16 febbraio 2016 risulta emblematica a proposito in quanto, facendo propria la definizione di straining ormai consolidata, lo definendì una forma attenuata di mobbing nella quale “… non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti di lavoro. In tutte le richiamate ipotesi se la condotta nociva si realizza con un’azione unica ed isolata o comunque con più azioni, ma prive di continuità si è in presenza dello straining, che può produrre una situazione stressante, causativa di gravi disturbi psico-somatici o psicofisici o solo psichici. Pertanto, continua la sentenza, pur mancando il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata, sia in sede civile ex art. 2087 c.c. sia in quella penale, se ne ricorrono i presupposti Anche siffatti comportamenti illeciti posti in essere dal datore di lavoro con particolare ostilità ed avversione verso il proprio dipendente, infatti, possono integrare una violazione dell’art. 2087 c.c. e necessitare di un’adeguata e congrua sanzione sul presupposto che il lavoro, come più volte affermato dalla giurisprudenza, non rappresenta solo un mezzo di guadagno, ma anche una forma di importante estrinsecazione della personalità dell’individuo sul luogo di lavoro, tutelata dagli artt. 2 e 3 Cost.” (Cfr. Cass. n. 12553/2003)
La vittima di straining, dunque, deve aver subito almeno una azione negativa che non si è esaurita, ma che continua a produrre i suoi effetti a livello lavorativo a lungo termine ed in modo costante (per esempio un cambio di mansioni e/o di qualifica, uno spostamento/ trasferimento penalizzante, una perdita di chance, la soppressione di un bonus, etc).
È evidente dunque la differenza rispetto al mobbing, per la cui configurabilità sono necessarie più azioni ostili, che si ripetono con sistematicità e con una certa frequenza (almeno alcune volte al mese) e per un certo periodo di tempo (almeno sei mesi).
La vittima dello straining deve poi essere confinata in una posizione di costante inferiorità rispetto ai suoi aggressori: essa non ha più le stesse capacità e possibilità di azione e di gestione del conflitto rispetto a prima e rispetto ai suoi aggressori e quindi non è più in grado di tutelare i propri diritti (nel senso del rispetto delle sue mansioni, della sua professionalità, del suo ruolo, delle sue competenze, etc.).
Infine, per essere inquadrata nello straining l’azione ostile deve avere carattere intenzionale e/o discriminatorio, ossia deve essere deliberatamente predisposta ai danni di una certa persona o di un certo gruppo di persone, a cui deve essere riservato un trattamento diverso, in senso negativo, rispetto agli altri.
Ed è proprio dalla previsione di tali profili che spesso emergono maggiori criticità nell’individuazione del fenomeno rappresentate dalle modalità con le quali lo straining può manifestarsi, poiché, come si è evidenziato, sono tali da renderlo facilmente confondibile con altre figure: l’isolamento relazionale o professionale del dipendente, la privazione degli strumenti necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa, lo svuotamento delle sue mansioni e l’assegnazione di mansioni inferiori possono rientrare anche nelle ipotesi del mobbing o, in assenza di un dolo specifico, di demansionamento o di dequalificazione (cfr. Trib. Milano 31 luglio 2003, in questa Rivista, 2004, 4, 402 ss.; Trib. Milano 29 ottobre 2004, in Oss. Giur. lav., 2004, 1, 889).
Ed in armonia con quanto appena esposto si pone il recentissimo pronunciamento della Cass. Civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 23/05/2022, n. 16580 “Che ha sancito come sia “configurabile il mobbing lavorativo solo ove ricorrano l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima, mentre può ricorrere una ipotesi straining solo quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie. Di contro, si resta al di fuori della responsabilità datoriale ove i pregiudizi lamentati dal lavoratore derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili. Ne consegue che non ricorrono le ipotesi di mobbing o di straining ove le condotte datoriali siano caratterizzate dall’essere munite di ragionevoli motivazioni e giustificazione dell’operato ed anche se il lavoratore ha sviluppato, in ragione dell’attività lavorativa, una sindrome depressiva quale conseguenza di una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative assunte dal datore”.
Avv. Alice Fernandez
Avv. Cecilia Di Guardo