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4 Marzo 2024La Corte Costituzionale è intervenuta con Ordinanza n. 29/2024 in materia di applicabilità della normativa relativa al riconoscimento dell’assegno sociale anche in capo a cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno per finalità lavorative, alla luce del principio di parità di trattamento sancito ex art. 12, par. 1, lett. e) della Direttiva m. 2011/98/UE.
Il caso prende le mosse dall’investimento da parte della Corte di cassazione, sezione lavoro, della questione di legittimità costituzionale circa la compatibilità dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 con gli artt. 3, 11, 38, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE e all’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro.
Nell’ambito del ricorso promosso dall’INPS avverso sentenza resa della Corte d’appello di Firenze con la quale, in riforma della pronuncia di primo grado, era stata accolta la domanda di riconoscimento di assegno sociale avanzata da una cittadina albanese titolare di permesso di soggiorno per motivi familiari, ma priva di permesso di soggiorno di lungo periodo, la Corte di Cassazione era sollevare questione di legittimità costituzionale della normativa interna, investendo della questione la Corte Costituzionale.
I dubbi di legittimità costituzionale sollevati coinvolgono principalmente primariamente la questione interpretativa della riconducibilità, o meno, dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 tra le prestazioni di sicurezza sociale rispetto alle quali i cittadini di Paesi terzi muniti di permesso di soggiorno per finalità lavorative o che, comunque, consenta di lavorare, beneficiano della parità di trattamento ex art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.
Esigendo tale quesito, preliminarmente, una risposta nella prospettiva del diritto europeo, la Corte Costituzionale ha interpellato, mediante il rinvio pregiudiziale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affinché quest’ultima chiarisca, rispetto all’istituto di diritto interno che viene in rilievo nel caso di specie, la portata e gli effetti delle norme dell’Unione assunte a parametro interposto nell’odierno incidente di costituzionalità.
Ciò detto, comunque, la Corte Costituzionale ha ritenuto di ricostruire il quadro nazionale applicabile. L’assegno sociale di cui trattasi è una prestazione in denaro che l’INPS eroga, su domanda, ai soggetti di età superiore a sessantacinque anni (dal 1° gennaio 2019, superiore a sessantasette anni) che versano in disagiate condizioni economiche, in quanto sono sprovvisti di reddito o lo percepiscono in misura inferiore alla soglia stabilita annualmente dalla legge nell’ammontare massimo dello stesso assegno in oggetto.
Tale provvidenza viene riconosciuta indipendentemente dalla circostanza che il beneficiario sia stato un lavoratore, ed ha natura «meramente assistenziale» (sentenza n. 137 del 2021).
L’assegno sociale mira, infatti, esclusivamente a far fronte allo stato di bisogno, derivante dall’indigenza, nel quale versano i soggetti sprovvisti di risorse economiche adeguate e che, a causa della vecchiaia, vedono scemare le proprie energie lavorative.
A norma dell’art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995, il richiedente la prestazione in esame deve avere la cittadinanza italiana e la residenza in Italia. Ai cittadini italiani residenti in Italia sono equiparati quelli di uno Stato dell’Unione europea e, secondo quanto disposto dall’art. 80, comma 19, della Legge n. 388 del 2000, oggetto di censura, i cittadini di Paesi terzi titolari della carta di soggiorno, titolo, questo, sostituito dal permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, di cui all’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo).
Il permesso di soggiorno di lungo periodo è concesso qualora ricorra una serie di presupposti che attestino la stabilità della presenza dell’interessato sul territorio, e il suo regime «si colloca nella logica di una ragionevole prospettiva di integrazione del destinatario nella comunità ospitante» (sentenza n. 34 del 2022).
Nello specifico, il rilascio di questo titolo di soggiorno è condizionato alla sussistenza dei seguenti requisiti: a) «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità»; b) «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale»; c) «alloggio idoneo»; d) «superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana».
Da ultimo, ai fini del riconoscimento dell’assegno sociale, è necessario che l’interessato abbia soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale. Tale requisito riguarda tutti gli aventi diritto, ivi compresi i cittadini extra UE, e, per questi ultimi, concorre con quello della titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo.
Con riferimento alle citate disposizioni costituzionali, e con specifico riguardo all’assegno sociale di cui si tratta, la sentenza n. 50 del 2019 della Corte Costituzionale aveva già ritenuto non discriminatoria, né manifestamente irragionevole l’assunzione del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo a presupposto per godere di tale provvidenza economica.
La pronuncia ha evidenziato che la Costituzione impone di preservare l’eguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extra UE dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di «un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale», riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona.
Nella richiamata sentenza n. 50 del 2019 si è altresì affermato che, stante la limitatezza delle risorse disponibili, al di là del confine invalicabile appena indicato, rientra nella discrezionalità del legislatore graduare con criteri restrittivi, e persino escludere, l’accesso del cittadino extra UE a provvidenze ulteriori.
Quanto alle disposizioni del diritto dell’Unione europea rilevanti in materia, si rileva come la Direttiva 2011/98/UE si ponga quale obiettivo quello di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di «una politica di integrazione più incisiva» (considerando n. 2), e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n. 19).
Ai cittadini provenienti da Paesi terzi che già «contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte» (considerando n. 19), la direttiva ha, infatti, inteso attribuire un «insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante, a prescindere dal fine iniziale o dal motivo dell’ammissione» (considerando 20), precisando che il diritto alla parità di trattamento nei settori dalla stessa specificati «dovrebbe essere riconosciuto non solo ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, ma anche a coloro che sono stati ammessi per altri motivi e che hanno ottenuto l’accesso al mercato del lavoro di quello Stato membro in conformità di altre disposizioni del diritto dell’Unione o nazionale»(considerando n. 20).
In conclusione, pertanto, il Giudice delle leggi – rimettendo la questione alla Corte di Giustizia europea – ha precisato che, dal rinvio operato dall’art. 12, paragrafo 1, lett. e), ai settori della sicurezza sociale definiti dal Regolamento CE n. 833/2004, non appaia automatica l’estensione del principio di parità di trattamento a tutte le prestazioni sociali ricadenti nel dominio della fonte regolamentare, ostandovi tanto la formulazione testuale della norma richiamante, quanto la ricostruzione sistematica della disciplina richiamata.
Anzitutto, l’art. 12, paragrafo 1, lett. e), della direttiva in questione, nell’individuare le prestazioni presidiate dal divieto di discriminazione, non rimanda a tutte le provvidenze inscrivibili nel perimetro applicativo del richiamato regolamento, ma più precisamente alle prestazioni correlate ai settori della sicurezza sociale da questo definiti, da identificarsi con gli specifici ambiti della sicurezza sociale individuati dall’art. 3, paragrafo 1, dello stesso regolamento.
Inoltre, lo stesso art. 12, paragrafo 1, attribuisce il diritto alla parità di trattamento ai cittadini dei Paesi terzi indicati nell’art. 3, paragrafo 1, lett. b) e c), identificandoli come lavoratori, là dove le prestazioni speciali ex art. 70 del predetto regolamento, rispetto ai cittadini dello Stato sede dell’istituzione debitrice, non presuppongono necessariamente una connessione, diretta o indiretta, con un rapporto di lavoro e dunque con un rapporto contributivo.
La Corte ha rilevato come il Regolamento CE n. 883/2004 riserva alle prestazioni “miste” (richieste dallo straniero al Paese membro ospitante) un regime parzialmente diverso rispetto a quello, improntato alla parità di trattamento (art. 4), dettato per le prestazioni di sicurezza sociale di cui al precedente art. 3, paragrafo 1. Ad esse, infatti, il citato art. 70, al paragrafo 3, prevede che non si applichi il principio della esportabilità. Per effetto di tale deroga, l’art. 70, paragrafo 4, chiarisce, infatti, che le prestazioni “miste” sono erogate esclusivamente nello Stato membro in cui gli interessati risiedono e ai sensi della sua legislazione dall’istituzione del luogo di residenza e sono a suo carico. Il legislatore europeo ha inteso, così, condizionare l’accesso alle prestazioni in esame al radicamento del richiedente nel territorio dello Stato chiamato a sopportare l’onere finanziario della erogazione.
Avv. Cecilia Di Guardo