Sospensione della prescrizione durante l’emergenza sanitaria da coronavirus
11 Dicembre 2020Vaccinazione da CoViD-19: se il lavoratore si rifiuta può essere licenziato?
3 Gennaio 2021Una questione che riveste particolare interesse e sulla quale è, di recente, intervenuta la Corte di Cassazione, è quella relativa al caso in cui un lavoratore, posto in Cassa integrazione, al suo rientro sul posto di lavoro non venga adibito alle mansioni che lo stesso svolgeva antecedentemente, bensì venga adibito a mansioni inferiori o, addirittura, lasciato inattivo.
Appare subito opportuno chiarire che l’inattività forzata del lavoratore da parte del datore di lavoro costituisce un comportamento illegittimo e sanzionabile nel nostro ordinamento. Il corretto e regolare svolgimento della prestazione lavorativa, difatti, non è considerato solo alla stregua di un dovere del dipendente, bensì anche come un vero e proprio diritto.
Le mansioni, difatti, costituiscono dovere ed obbligo contrattuale sussistente in capo al lavoratore, tuttavia, le stesse, assurgono anche al rango di diritto sussistente nella sfera giuridica del prestatore di lavoro in quanto lo stesso ha contrattualmente diritto ad essere adibito alle proprie mansioni.
L’inattività forzata imposta da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore, pertanto, deve ritenersi illegittima e fonte di responsabilità per lo stesso.
Nello specifico l’inattività forzata può concretizzarsi in una serie di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro quali: la emarginazione del dipendente, il mancato coinvolgimento dello stesso nei gruppi di lavoro, il collocamento del dipendente in un ufficio da solo, la mancata assegnazione di mansioni al dipendente.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, si trattava di una lavoratrice la quale contestava la legittimità della Cassa Integrazione per l’irregolarità della rotazione adottata dal datore di lavoro. Il Tribunale di Milano, nell’accogliere il ricorso, aveva condannato altresì il datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti dalla ricorrente a motivo del demansionamento subito dalla stessa al momento del rientro sul posto di lavoro.
Tale ultima parte della decisione, tuttavia, veniva riformata dalla Corte d’Appello, la quale non ravvisava i presupposti per il riconoscimento del risarcimento danni in capo alla deducente, sull’assunto che la privazione di mansioni operata in danno alla deducente era stata circoscritta ad un limitato periodo di tempo e comunque, la stessa, era “inserita nello specifico contesto dell’illegittima collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, già sanzionata mediante la condanna al pagamento delle differenze retributive fra il relativo trattamento e le retribuzioni maturate nei rispettivi periodi“.
Quest’ultima, pertanto, adiva la Corte di Cassazione al fine di vedersi riconosciuto il quantum risarcitorio e la Suprema Corte si pronunciava sulla questione nell’ambito dell’Ordinanza n. 20466/2020.
Nello specifico, la Corte ha chiarito che la motivazione fornita dal Giudice di secondo grado fosse contraddittoria in quanto la privazione di mansioni operata dal datore di lavoro in danno alla dipendente si poneva in contrasto sia con la contrattazione collettiva relativamente ai criteri di rotazione previsti per la Cassa Integrazione, sia con gli artt. 2103 c.c. e 13 della L. n. 300/70 i quali prevedono la tutela risarcitoria in caso di demansionamento del dipendente operato dal datore di lavoro nei casi in cui il demansionamento stesso sia idoneo a comportare la frustrazione della professionalità del prestatore di lavoro.
In altre parole, la Suprema Corte ha chiarito che la modifica in termini peggiorativi delle mansioni assegnate al dipendente risulta idonea a determinare un pregiudizio, il quale ben potrà costituire oggetto di risarcimento del danno di natura non patrimoniale.
Se, pertanto, il demansionamento del dipendente ad opera del datore di lavoro costituisce un pregiudizio di natura non patrimoniale, il quale potrà trovare una tutela risarcitoria, allo stesso modo deve essere considerata la mancata assegnazione di una qualsiasi mansione al dipendente, lasciandolo – di fatto – in uno stato di inattività forzata.
Vi è di più, l’inattività forzata dal datore di lavoro non costituisce solo una violazione della norma ex art. 2103 c.c., bensì si pone in violazione del diritto al lavoro, principio fondante del nostro ordinamento giuridico e risulta idoneo a ledere l’immagine e la professionalità del lavoratore.