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18 Gennaio 2021Una questione che sta facendo parecchio discutere negli ultimi giorni è quella relativa alla possibilità, per il datore di lavoro, di operare un licenziamento nei confronti di un suo dipendente a fronte del diniego, da parte di quest’ultimo, rispetto all’esecuzione della vaccinazione anti CoViD-19.
Ebbene, la discussione, invero, prende le mosse dalle dichiarazioni rese da Autorevole Dottrina, la quale, utilizzando differenti riferimenti normativi, ha fornito una visione piuttosto “stringente” della questione, sostenendo – appunto – che nel caso di mancata volontà, da parte del lavoratore, di vaccinarsi, il datore di lavoro potrà operare un licenziamento per giusta causa nei suoi confronti.
La norma che, certamente, funge da cardine nell’ambito di tale analisi, è quella ex art. 32 Cost., la quale, al primo comma, fissa un principio fondamentale all’interno del nostro ordinamento, ossia quello della tutela del diritto alla salute.
Nello specifico, il 1° comma della norma recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”.Al secondo comma, l’art. 32 Cost. enuncia il principio secondo cui: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.”.
Ebbene, da un’accorta lettura dell’art. 32 emerge come, in realtà, la risposta al quesito che ci si pone, possa essere agevolmente raggiunta attraverso un percorso logico-induttivo.
Come chiarito, difatti, in primis, bisognerà domandarsi se all’interno del nostro ordinamento sia, ad oggi, vigente una legge che imponga la vaccinazione anti SARS-CoV2, solo in tal caso, difatti, un eventuale licenziamento operato in danno ad un lavoratore, il quale non accetterà di vaccinarsi, non sarebbe idoneo a porsi in contrasto con l’art. 32.
Ebbene, ad oggi, la vaccinazione non è obbligatoria e, invero, non risulta che, all’interno del sistema normativo, vi sia alcuna legge che, in qualche maniera, possa legittimare un licenziamento intimato per mancata adesione alla vaccinazione da parte del lavoratore.
Autorevole Dottrina riconduce, al contrario, la possibilità di operare il suddetto licenziamento alla norma ex art. 279 del testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (D.Lgs. n. 81/2008). Tale norma, difatti, impone al datore di lavoro di mettere a disposizione dei propri dipendenti “vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico, da somministrare a cura del medico competente. Tale norma, secondo tale parte della Dottrina, andrebbe letta in combinato disposto con l’art. 42 del medesimo Decreto, il quale prevede che: “Il datore di lavoro […] attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.”. Ad avviso di tale Dottrina, pertanto, alla luce delle richiamate norme, il lavoratore che venga dal medico giudicato inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni e decida di non sottoporsi alla vaccinazione da SARS-CoV2 disposta dal datore di lavoro, in mancanza di possibilità di adibirlo allo svolgimento di differenti mansioni, ben potrà essere licenziato.
Altra parte della Dottrina sostiene, invece, la legittimità del licenziamento sulla base di una prevalenza dell’interesse alla tutela della salute pubblica rispetto a quello individuale del lavoratore rispetto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, e lo fa attraverso il richiamo all’art. 2087 c.c., il quale prevede che il datore di lavoro adotti ogni misura giudicata idonea secondo la tecnica e la scienza a garantire la salute e la sicurezza sul posto di lavoro.
Ebbene, seppur, tali impostazioni risultino assai interessanti e pregne di spunti di riflessione, non appaiono, a nostro avviso, pienamente condivisibili.
La norma ex art. 279 del Testo Unico, seppur letta in combinato disposto con l’art. 42 del medesimo Decreto, non sembra condurre alla conclusione prospettata da parte della Dottrina.
Il fatto che il datore di lavoro sia tenuto a mettere a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non siano già immuni all’agente biologico, non è, di per sé, idoneo a far scaturire, in capo al lavoratore l’obbligo vaccinale e, pertanto, non legittima un eventuale licenziamento in caso di diniego, da parte del lavoratore, di sottoporvisi. Se così fosse, difatti, il datore di lavoro, nell’applicare la sanzione del licenziamento nei confronti del lavoratore, agirebbe nei panni del legislatore, agendo come se vi fosse una specifica norma che imponga al lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione anti Coronavirus, norma – ad oggi – assente nel nostro ordinamento.
Come detto, difatti, il secondo comma dell’art. 32 Cost. prevede che nessun soggetto possa essere sottoposto ad un trattamento sanitario se non previsto dalla legge.
In aggiunta a quanto detto, inoltre, non appare neanche possibile addivenire alla presunta esistenza di una norma impositiva della vaccinazione attraverso una qualsivoglia operazione esegetica.
Risulta evidente, pertanto, che non risulta possibile, nell’ambito dell’assetto normativo odierno, sanzionare il lavoratore che neghi di sottoposi alla vaccinazione anti CoViD-19 con il licenziamento. Ne consegue che, l’eventuale licenziamento, dovrebbe considerarsi illegittimo in quanto privo di giusta causa.
Per quel che attiene all’applicazione dell’art. 2087 c.c. quale legittimante l’intimazione di un licenziamento a fronte del diniego alla vaccinazione da parte del dipendente, anche tale riferimento appare inidoneo a porre solida base affinchè il datore di lavoro possa procedere alla cessazione del rapporto lavorativo.
Tale norma, difatti, impone al datore di lavoro di predisporre tutta una serie di misure idonee a tutelare la sicurezza e la salute del lavoratore sul posto di lavoro, ciò tuttavia, non può porsi, di certo, in contrasto con i diritti costituzionali dei lavoratori!
Le misure di sicurezza che, in tempo di pandemia da Coronavirus, il datore di lavoro è tenuto a far rispettare in ambito lavorativo sono, certamente, quelle relative al distanziamento sociale ed all’utilizzo di dispositivi di protezione individuali, così come chiarito altresì nell’ambito dei numerosi protocolli di sicurezza firmati dalle parti sociali, i quali, tuttavia non parlano di obbligo vaccinale per i lavoratori.
Con riferimento a ciò, l’art. 29-bis del “Decreto Liquidità” ha reso vincolanti i richiamati protocolli prevedendo che: “I datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.”.
Ne consegue che, volendo utilizzare il riferimento ex art. 2087 c.c. al fine di imporre l’obbligo vaccinale al lavoratore, pena il suo licenziamento, si dovrebbe svolgere un’operazione esegetica della norma, con carattere squisitamente analogico, e – come detto – tale operazione di certo non può essere la base per intaccare in maniera così evidente i diritti dei lavoratori, peraltro costituzionalmente garantiti, essendo necessaria – lo si ripete – una norma ad hoc.
Per quel che attiene alla prevalenza dell’interesse collettivo alla salute, rispetto a quello individuale del lavoratore concernente la conservazione del posto di lavoro, ebbene – per quanto tale assunto potrebbe trovare piena condivisione da un punto di vista squisitamente morale – lo stesso non può dirsi da un punto di vista normativo.
Infatti, il Legislatore Costituzionale ha posto sullo stesso piano il diritto alla salute collettiva e quello alla salute individuale e, in più, ha posto altresì sullo stesso piano la impossibilità di imporre un trattamento sanitario se non espressamente previsto ex lege.
A parere di chi scrive, difatti, gli elementi da porre in relazione in un’ottica di bilanciamento tra diritti e doveri, non dovrebbero essere quello dell’interesse alla tutela della salute pubblica e quello relativo all’interesse individuale del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, bensì quello dell’interesse alla tutela della salute collettiva con quello relativo alla possibilità di autodeterminazione di una persona rispetto alla ricezione di un trattamento sanitario.
Ecco che, allora, analizzando la questione da tale punto di vista la Costituzione fornisce chiara ed esaustiva risposta all’art. 32, 2° comma, ove prevede che nessuno possa essere sottoposto ad un trattamento sanitario se non imposto dalla legge.