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11 Marzo 2022Un tema decisamente dibattuto e sul quale, da ultimo, è intervenuta la Corte di Cassazione è quello relativo all’onere probatorio attribuito alla Pubblica Amministrazione in caso di contestazione, da parte della medesima, dell’emissione di fatture false in capo al contribuente.
Nello specifico si trattava del caso di un contribuente il quale, in seguito ad un accertamento effettuato da parte della Guardia di Finanza, si vedeva destinatario di un provvedimento implicante la non deducibilità di talune fatture, con riferimento sia all’IVA, sia alle altre imposte dirette, sulla base della asserita falsità delle stesse determinata dalla mancanza di sede operativa della società contribuente idonea allo svolgimento dell’attività.
La società, a mezzo del proprio legale rappresentante, adiva la competente Commissione Tributaria Provinciale la quale emetteva sentenza favorevole allo stesso. La questione, tuttavia, veniva portata dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale da parte della Amministrazione Finanziaria, la quale confermava la decisione emessa all’esito del primo grado e, pertanto, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso alla Suprema Corte.
Sulla questione la Corte di Cassazione si pronunciava con l’Ordinanza n. 4117/2022, rigettando le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria e specificando che, in tema di IVA, l’Amministrazione Finanziaria che contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente (valorizzando, ad esempio, la circostanza che la prestazione non poteva essere effettivamente resa dal fatturante, perchè sfornito della sia pur minima dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione).
Solo in seguito all’assolvimento di tale onere probatorio da parte dell’Agenzia delle Entrate spetterà al contribuente dimostrare di aver adoperato la diligenza massima esigibile da “un operatore accorto” (in tal senso, ex multis Cass., Sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., Sez. 5, 4 febbraio 2020, n. 2483; Cass., Sez. 5, 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., Sez. 5, 13 gennaio 2021, n. 336).
Orbene, nella fattispecie, a detta della Suprema Corte, “…il giudice di secondo grado ha accertato l’estraneità della contribuente ad ogni coinvolgimento nelle operazioni soggettivamente inesistenti, valutando l’irrilevanza presuntiva delle circostanze dedotte dall’amministrazione finanziaria in sede di accertamento, in particolare la mancanza di una sede operativa adeguata allo svolgimento dell’attività commerciale e la omissione della tenuta della contabilità. Secondo la sentenza impugnata, infatti, “nella fattispecie in esame, l’unica circostanza valorizzata in sede di accertamento dai verificatori è quella secondo cui la società cedente non aveva “mai avuto una sede operativa adeguata allo svolgimento dell’attività asseritamente svolta, nè tenuto conto della contabilità”; tale circostanza, a giudizio di questa Commissione, è da sè sola inidonea a costituire prova presuntiva dello stato soggettivo del contraente, di “consapevolezza che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’imposta””. Difatti, le circostanze poste a base dell’accertamento della polizia tributaria (peraltro, non riprodotte in ricorso ai fini dell’autosufficienza) non sono idonee a presumere la conoscibilità per il contribuente della natura fittizia [dell’attività svolta]…”.