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3 Giugno 2022La Suprema Corte è intervenuta in materia di diritto del lavoro fornendo risposta ad un’annosa questione relativa alla legittimità del licenziamento intimato al lavoratore per l’adozione, da parte dello stesso, di una serie di condotte contrarie ai doveri professionali delle quali, tuttavia, solo alcune risultino accertate.
La questione oggetto di analisi ha preso le mosse dalla vicenda di un lavoratore, impiegato presso un’impresa impegnata nella depurazione delle acque, il quale si vedeva recapitare una lettera di licenziamento in data 29 luglio 2015, ove si leggeva – tra le motivazioni del provvedimento espulsivo – quella di aver attribuito dichiarazioni false a talune colleghe in relazione all’integrità di essiccatore utilizzato nell’ambito delle mansioni di addetta al laboratorio di analisi, nonchè per aggressione verbale e fisica del datore di lavoro in presenza di terzi.
Il lavoratore impugnava il provvedimento e, pertanto, la questione finiva dinanzi al Giudice del Lavoro di Rovigo, il quale assumeva una decisione in favore del ricorrente, ritenendo illegittimo il licenziamento.
Veniva proposto appello avverso il predetto decisum e la Corte d’Appello di Venezia emetteva sentenza di riforma della decisione di prime cure, ritenendo legittimo il licenziamento. La Corte territoriale, difatti, a seguito di approfondita disamina delle risultanze probatorie relative al primo grado, ha ritenuto provati i fatti disciplinarmente addebitati nella lettera di contestazione, fatti integranti reato e, comunque, la fattispecie di cui all’art. 69, n. 9, lett. E, del CCNL applicato in azienda. A motivo di quanto detto, pertanto, ha ritenuto che la contestualizzazione della vicenda, nell’ambito di un clima di pregressa elevata conflittualità tra dipendente e datore di lavoro, non legittimasse il lavoratore ad insultare apertamente ed immotivatamente il datore di lavoro, con oggettivo disvalore aziendale, e conseguente impossibilità di proseguire il rapporto di lavoro a fronte della irrimediabile frattura del vincolo fiduciario fra le parti e infausta prognosi di un ritorno alla normalità e al corretto adempimento degli obblighi di obbedienza, fedeltà, collaborazione intrinseci al rapporto di lavoro; ha, infine, condannato il ricorrente alla restituzione dell’indennità di cui all’art. 18, comma 5, della L. n. 300/1970 percepita a seguito dell’adozione della ordinanza di primo grado.
Orbene, giunta la questione dinanzi alla Corte di legittimità, alla stessa veniva posta la questione relativa alla avvenuta dimostrazione processuale solo di un fatto fondante il licenziamento, non risultando in alcuna maniera dimostrato uno dei motivi del licenziamento.
La Suprema Corte, nel fornire risposta al quesito, ha chiarito come: “…nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la insussistenza del fatto si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare, in ogni caso, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati; ne consegue che, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le altre ipotesi di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art.1, comma 42, per le quali è prevista la tutela indennitaria cd. forte…”.
Ne consegue che il ricorso promosso dal ricorrente è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione.