
Corte Costituzionale: Sentenza n. 149/2022 – ne bis in idem nel giudizio penale e amministrativo. 
29 Agosto 2022
Corte di Cassazione, Sentenza 6 settembre 2022: la prescrizione dei crediti da lavoro
9 Settembre 2022Com’è noto l’art. 2094 c.c. statuisce che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Dall’entrata in vigore del Codice Civile avvenuta nel 1942 la nozione di lavoro subordinato si è sempre collegata, inevitabilmente, con la classica “figura” dell’operaio di fabbrica.
Infatti, con il passare degli anni, il concetto di subordinazione non è mai stato soggetto alle varie riforme del mercato del lavoro italiano che, a partire dalla Legge n. 300 del 1970[1], hanno interessato tutte le varie caratteristiche del rapporto di lavoro ad eccezione della figura del tanto discusso contratto di lavoro subordinato.
Basti pensare che anche una parte della recente della giurisprudenza ha definito il lavoro subordinato come quel “vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale…” (v.Cass. Civ. Sez. Lav., n. 7024/2015).
Fino a pochi anni fa, dottrina e giurisprudenza erano concordi nell’affermare che l’inserimento all’interno dell’organizzazione aziendale avesse come naturale presupposto l’esclusiva prestazione del prestatore di lavoro all’interno della sede individuata dal datore di lavoro.
Tuttavia, com’è noto, soprattutto con la diffusione del virus Sars-Cov 2, il paradigma e lo scetticismo che accerchiava il cd. lavoro da remoto è radicalmente cambiato.
Dal marzo 2020 e sino al 31 agosto 2022, il Legislatore – al fine di evitare una più grave diffusione del contagio tra i lavoratori pubblici e privati – ha previsto la possibilità per il datore di lavoro di considerare, unilateralmente e senza accordo, i dipendenti in Smart Working (ovvero lavoro agile).
Nella sostanza, il datore di lavoro decideva quanti giorni il dipendente poteva e doveva lavorare da casa e/o altro luogo fuori l’azienda. È indubbio che tale modalità “semplificata” di Smart Working era figlia della grave crisi epidemiologica. Tuttavia, dopo più di due anni di pandemia, dal 01 settembre 2022 lo Smart Working potrà essere effettuato solo se datore di lavoro e lavoratore troveranno un consenso tra le parti.
Si torna, per così dire, alle origini: saranno le parti del rapporto di lavoro a dover sottoscrivere un accordo nel rispetto della Legge (v. D.lgs. 81/2017), e la stessa prestazione lavorativa non potrà essere effettuata unicamente all’esterno dell’azienda, ma sarà necessario prevedere una presenza minima in azienda. Questo evidentemente per non creare nel lavoratore un distacco eccessivamente gravoso con l’organizzazione aziendale e, soprattutto, con i rapporti tra colleghi fondamentali in tema di sviluppo psicofisico della socialità del lavoratore.
- Ma cos’è nella sostanza lo Smart Working?
Come indicato dalla Legge, è una nuova modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, al fine di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro del lavoratore, attraverso la flessibilità in termini di luoghi e orario di lavoro.
Non si tratta, dunque, di una tipologia di contratto di lavoro, ma di uno specifico accordo tra datore di lavoro e lavoratore, diverso e ulteriore rispetto al contratto stesso, che specifica esclusivamente le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.
In altre parole, vi è completa libertà delle parti di addivenire ad un accordo per disciplinare diverse modalità della prestazione lavorativa.
Con lo Smart Working è dunque possibile disciplinare:
- che la prestazione lavorativa sia svolta in parte fuori dai locali aziendali, in un luogo concordato tra le parti;
- non indicare una postazione fissa;
- non determinare precisi vincoli di orario, entro i limiti della durata massima dell’orario di lavoro derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva;
- utilizzare strumenti tecnologici;
- utilizzare lo smart working anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi.
Il datore di lavoro rimane responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa e, di conseguenza, deve garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di Smart Working.
L’accordo di cui sopra, può essere stipulato sia a tempo determinato o a tempo indeterminato. Per una completa analisi dell’istituto si rinvia agli artt. 18 ss, del D.lgs. 81/2017.
- Lo Smart Working può aiutare a contrastare la crisi energetica?
Gli operatori del settore, partendo proprio dalla predetta flessibilità dell’istituto oggetto del presente articolo, hanno sin da subito affermato che un ricorso massiccio allo Smart Working permetterebbe, soprattutto per le aziende, una diminuzione dei costi energetici.
L’assioma è di facile comprensione: se ho meno dipendenti in azienda, ho meno strumenti tecnologici accessi, utilizzo meno corrente e, quindi, spendo meno (o perlomeno pongo un freno ai vertiginosi aumenti dei costi dell’energia).
Tale soluzione è fattibile?
In realtà, la questione è molto più complessa di quanto appare. Infatti, senza un intervento normativo e/o contrattuale (collettivo o individuale), vi è il rischio che il costo in più verrà automaticamente “scaricato” sul lavoratore smart worker.
Risulta in prima lettura evidente come spostare il problema dall’azienda al dipendente è quantomeno rischioso e, a nostro avviso, controproducente.
Tuttavia, se e quando le parti sociali, o il datore di lavoro e lavoratore, dovessero trovare un accordo sulla ripartizione dei costi energetici creati dall’attività in Smart Working una qualche forma di contrasto al caro energia è sicuramente fattibile.
Le proposte possono essere tante:
- dalla ripartizione a metà dei costi energetici sostenuti dal lavoratore durante lo Smart Working;
- dalla effettiva diminuzione degli spostamenti dei lavoratori, i quali non utilizzeranno più l’auto e/o il trasporto pubblico per recarsi al lavoro;
- una corretta e diversa impostazione dei tempi di lavoro: Non più 8 ore davanti al pc, ma lavoro per obiettivi per cercare di diminuire l’orario di lavoro in cui si usano strumenti tecnologici.
Insomma, solo lo Smart Working non aiuta ma è uno straordinario mezzo che sia il Legislatore, sia le parti sociali, sia i datori di lavoro e sia i lavoratori stessi possono utilizzare per ridurre al massimo il consumo di energia elettrica e di carburante. Se a tutto ciò, uniamo una nuova “rivoluzione” culturale in tema di energia rinnovabili e ambiente, che a dir la verità in questo paese manca, lo Smart Working può esprimere tanto. Vi è, inoltre, da considerare che l’Italia si attesta in controtendenza rispetto alla maggior parte dei Paesi europei in tale ambito, preferendo la prestazione dell’opera professionale presso il luogo di lavoro e non, invece, nella modalità c.d. “agile” e ciò si giustificherebbe proprio in ragione del caro energia. Appare, pertanto, doverosa una regolamentazione di tale aspetto affinchè lo smart working possa divenire strumento – anche – di contrasto al caro energia, con tutto ciò che ne consegue.
Avv. Giulio Borrelli
Avv. Cecilia Di Guardo
[1] cd. Statuto dei Lavoratori